Sulla tappa di ritorno della Ravenna-Umago-Ravenna, fine giugno 2013, quasi tutte le barche hanno rinunciato per mancanza di vento già a metà mattina. Anche Shasa avanza a motore sul mare piatto, in piena bonaccia da qualche ora. Il clima ormai è proprio quello di una veleggiata andata a monte: bibite e letture in pozzetto, tutte le nostre bellezze (tra cui Giuliano) a prendere il sole a picco in coperta, in pieno Adriatico. Chissà quanto tempo manca, due ore o dieci, poco importa, non c’è più la fregola di recuperare da ultimi a penultimi, ci basta arrivare entro sera. Domani si va a lavorare.
Nel pomeriggio si è alzato lo scirocco, e ora è a 25-30 nodi. Il mare si è formato e colpisce la barca al mascone di sinistra. Una mano di terzaroli alla randa, già presa da Fabrizio quando eravamo tranquilli, e Shasa viaggia di bolina stretta, a vela e motore, piegata di oltre 30°. Mentre inizia a far fresco, a bordo i nervi si sono fatti un po’ tesi: c’è chi è teso perché non ha mai sperimentato una bolina così; c’è chi è steso, dai colpi di sole, sotto coperta; chi ne sente il peso, al capezzale sottovento; e chi ne sente il peso perché l’insolato piega la barca dalla parte sbagliata.
Un peggioramento dello steso sarebbe poco gestibile qui in mare aperto. Siamo ancora a 15 miglia da Ravenna, con mare contro e vento che potrebbe (parrebbe) girare verso la nostra prua, e il motore che col mare grosso boccheggia chiamando gasolio da un serbatoio (allora!) ben poco collaborativo. Il rischio è di metterci 4 ore o più quando in altre condizioni ne mancherebbero la metà, e di ritrovarci al buio tra onde considerevoli a dover evacuare un povero tricheco smidollato. È dura resistere allo sconforto e ai pesanti sentimenti di tutti.
Tutto andò per il meglio quel giorno. Superammo bene innanzitutto le nostre auto-suggestioni.
Ma in quel mezzo delirio di persone inchiodate in pozzetto o a letto, e altre che facevano la spola tra cabina e Gps a contare i secondi di longitudine guadagnati, in un preciso istante, mentre ero indaffarato a non far niente sotto coperta, il tempo si è fermato, tutto il resto si è ammutolito e offuscato, e per qualche istante di magia ho avuto una visione indimenticabile.
Shasa sta letteralmente volando, ondeggia, beccheggia, sibila nel vento, mentre il sole sta sparendo all’orizzonte incendiando terra. Fabrizio si sdraia sopravento sulla tuga, mezza gamba fuori dalla falchetta, lo sguardo rivolto a prua, apparentemente dimentico di tutto. Ho l’impressione che stia “ascoltando” Shasa. Fa suoi i movimenti della barca, non capisco se sta imparando qualcosa o se ne sta soltanto lì, in estasi, immerso in tutta la sua evidente e meritata privatezza. Così disteso appiccicato alla coperta, gli occhi quasi chiusi, pare sia una cosa sola con la sua barca.
Oggi mi sento un ladro blasfemo quale sono, ricordando. In quel momento ho intravisto un’anima, quella di Fabrizio e della sua barca fusi insieme lì fuori, e ne ho desiderata una anche per me, quando mi sono preso questa immagine di nascosto.