Croazia 2015, Traversata di rientro a Marina Ravenna.
[…segue] Le nostre amorevoli compagne, bimbe comprese, sono sotto coperta a dormire, nel calduccio delle cabine. Fabrizio ed io siamo in pozzetto. Il sole è sorto da poco, ed è ancora un’enorme arancia che sorveglia la nostra scia. Sopra, il cielo è lattiginoso, e lascia intuire un falcetto di luna. Una luna che stanotte si vedeva appena e che non ha illuminato per niente la nostra scia. Davanti a noi le nuvole e i lampi di ieri sera sono svaniti.
Nel frattempo, il vento è cresciuto da 5-6 nodi stabili a 20-25 nodi con raffiche a 30 e (caso raro, visto che la nostra prua è rimasta fissa) è girato da Ponente (W) a Maestrale (NW), quel poco che basta per dare a Shasa la possibilità di accelerare un po’, spiegando le vele. Spinto dal Maestrale, il mare sta crescendo e ora le onde, alte 1-1,5m, sono fresche fresche, come brioche appena sfornate e si susseguono molto ravvicinate, investendoci dal mascone di dritta (davanti a destra). L’andatura di Shasa (5,6-5,8kts al Gps) è un po’ arrancante e movimentata. La prua si impenna sulle onde corte ogni 4-5 secondi e ripiomba nell’onda successiva. La randa, ridotta da una mano di terzaroli, non impedisce a sufficienza il rollio, che con le onde laterali e le raffiche è consistente. Sotto coperta di sicuro non dev’essere piacevole. E davanti a noi ci sono almeno altre 20-22 miglia per raggiungere il porto. A questa velocità vuol dire 4 ore di tagadà.
Sia chiaro che, a parte qualche eventuale vomitino, non c’è nessun pericolo imminente, ma Fabrizio decide di tentare di abbreviare la durata della rumba. Così apriamo anche 3/4 di genoa, tesandolo a ferro. Poggiando qualche grado siamo di bolina stretta a vela e motore, e ora la barca, nonostante sia inclinata a sinistra di circa 30° ha un’andatura migliore: il rollio è quasi annullato, non fosse per le sberle delle onde. E soprattutto Shasa ha guadagnato la velocità massima. Voliamo a 7 nodi, con punte di 7,4 (al Log e al Gps, micacazzi). Grazie a questa accelerata al massimo ci metteremo 3 ore, restituendo un’oretta di pace alle nostre preziose donne.
Oddio, “volare” è proprio un eufemismo tipico di chi va a vela… Tra onde, raffiche e correzioni di timone (Fabrizio ha dato al Giapu il meritato riposo), vedendo la nostra andatura un non addetto ci scambierebbe per un elefante sdraiato che viene sollevato da forze invisibili per essere tuffato di sbieco dentro enormi pozzanghere salate.
Vista da qui, invece, Shasa è un animale bellissimo ed efficiente. Ha il corpo potente, fluente e liscio di un delfino, capace di scivolare dentro e fuori dal mare scegliendo sempre dove andare trovando la minima resistenza all’acqua. Ha le ali bianche, leggere e forti di un albatro o di un gabbiano, che prendono ogni soffio di vento per trasformarlo in velocità e portanza.
Fabrizio è seduto sul bordo del pozzetto, e io davanti a lui. Da prua si sollevano sberle di spruzzi che, spinti dal vento contrario, puntualmente ci investono in pieno. Vere secchiate d’acqua, quelle che nei film un macchinista tira sugli attori da fuori campo. Sul finir della notte avevamo indossato le giacche a vento, ma poi non abbiamo avuto il tempo di prendere i pantaloni stagni. Appena abbiamo dato vela, rivoli d’acqua hanno iniziato a correre sulla coperta da prua verso poppa, rinfrescandoci, da sotto, il sedere.
Scendo sotto coperta a controllare. A prua P. e C. dormicchiano, chiedendomi l’una quanto durerà, l’altra se è normale che debba puntellarsi contro la murata. A poppa, L. ronfa serena a 4 di spade, il materasso tutto per lei, e A. si è rintanata a salamone nello spigolo tra materasso e murata. Apre gli occhi un attimo solo per scusarsi se occupa il mio posto. Decido di non invitarla di sopra per un giro di rumba.
Fuori, tutto considerato, è bellissimo. Fabrizio ha finalmente ritrovato il suo sguardo da Shasa che vola. Da sotto coperta rumori di cose che sbattono negli stipetti (bottiglie, pentole, tazze, il fornello basculante…), fuori il rombo costante del motore quasi viene annullato da questa sinfonia di vento, vele e schiaffi di mare. Tra una secchiata e l’altra alzo lo sguardo alla testa dell’albero, che oscilla sicura di qualche metro avanti e indietro come un pendolo, trattenuta saldamente dalle sartie. Immagino un violino, con le corde tese sul ponticello.
I piedi salati, nudi e gocciolanti cercano di puntellarmi su punti di appoggio non scivolosi. Mi riparo come posso chinando in avanti il busto per proteggere dagli spruzzi almeno le gambe. Poi guardo i pantaloni, e ogni gamba è perfettamente bicolore: scuro-bagnato a destra, lato prua, grigio-asciutto a sinistra. Quando mi chino molto, Fabrizio si prende la maggior parte degli scrosci destinati a me. Scherziamo su chi si prende le secchiate migliori (“Questa te l’avevo tenuta da parte, era abbastanza fresca?”, “E smettila di orzare apposta!”, “Azz, l’hai capita finalmente, e me l’hai lasciata tutta!”).
Passiamo così delle ore di un qualcosa che, per chi va in mare, si può definire gioia pura e primigenia. Nessun pericolo, né attuale né in vista, impegno massimo e fiducia ricambiata tra uomo e barca. Come il mare, Shasa restituisce. Restituisce sempre.
“Arriviamo” un miglio a sud delle dighe, il mare si è leggermente calmato. Viriamo e immaginiamo come per chi sta sotto coperta il mondo si sia ribaltato. A duecento metri dalle dighe, rollando e beccheggiando, ammainiamo le vele con ferma rapidità (nota: mai una navona che entri a coprirti dal vento quando ne hai bisogno). La lupetta di mare L. esce per prima sorridente, intuisco nei suoi occhi “quello” sguardo di suo padre. In effetti sono proprio identici, quando strizzano le palpebre mentre sono impegnati in qualcosa… Mentre le altre pian piano si affacciano, svegliate dalla tranquillità del miglio di mare calmo tra le dighe, mi godo il privilegio di un ormeggio ben condotto per Shasa al suo posto al CVR.
La colazione, oggi, si fa al bar. Posso avere una brioche? Quante ne vuoi, tesoro.