È la domenica pomeriggio dopo la più bella Barcolana di sempre e abbiamo finalmente festeggiato, ma non abbastanza: le previsioni meteo non vogliono lasciarci a Trieste un altro quarto d’ora a goderci la nostra ricca festa in pozzetto, qui davanti ad una marea di gente e a questa scenografia urbana di una bellezza incredibile. Dobbiamo mettere la prua su Ravenna prima che la Bora forte ci raggiunga in mare aperto.
Dopo aver riarmato la randa da crociera (quella in kevlar malauguratamente porta i segni del suo continuo fileggiare a salve nelle due lunghe e rafficate boline), salutiamo con un po’ di magone Marco e Pia, che resteranno ancora qualche ora in città.
“Ho mollato a poppa, molla a prua, siamo liberi? OK, andiamo!” Siamo in mare. Nonostante la regata appena finita e la partenza anticipata, mi viene quasi da pensare: finalmente di nuovo in mare!
Diamo randa (con 1 mano di terzaroli) ancora in Bacino San Giorgio e passando dietro la linea d’arrivo (mentre altre barche stanno ancora arrivando) Fabrizio insegna la rotta desiderata a Lawrance, che spure stavolta ha deciso di fare le bizze. Non solo per noi è dura ripartire.
Apriamo anche il genoa. Siamo tutti in pozzetto, ancora gasatissimi ed empi di meraviglia, a goderci un panorama quasi sconosciuto: non siamo mai partiti così presto da Trieste. Il sole, lontano dall’orizzonte, ci scalda ancora quel poco che può. Entriamo in quella specie di limbo prima della nottata in cui si mescolano l’attesa, il ricapitolare la giornata, qualche altra pacca sulle spalle e carezze gentili alla pelle della barca, varie birrette (per chi può tenere qualcosa nello stomaco… il mio è ancora K.O.), l’appesantirsi dell’abbigliamento in vista della notte, le ultime occhiate ai siti meteo finché siamo ancora a portata delle reti italiane.
Per Antonio è arrivato il momento della prima traversata importante e anche lui si sta preparando, nella serena tranquillità che regna in pozzetto, ad una lunga notte. La sua prima notte in mare aperto. Sono emozionato per lui, almeno quanto lui.
Con vento e mare mosso (onda lunga di 1-1,5m) praticamente in poppa, proviamo per un po’ a dare fiducia al timone automatico, ma poco dopo ci rendiamo conto che il Giapu non ce la può fare: si deve timonare a mano.
Prima del tramonto, sotto una pioggia ormai non più trascurabile e sfiancato da ore ed ore di continui spasmi gastrici, scendo in cuccetta a cercare un po’ di riposo, e così fa Lia. Con la faccia annegata nel cuscino, il motore e le onde mi devono cullare per pochi secondi prima del crollo. Mentre dormo seriamente, intuisco lontanamente che il motore viene spento, giusto il tempo di pensare “Figata, c’è abbastanza vento da andare giù sparati a vela!”.
No, non proprio. Dopo quel che a me sembrano pochi secondi (ma è una mezzora), sento Fabrizio che richiude il vano motore e riaccende il Volvo. Oh oh… Antonio scende in cuccetta mentre mi sto rivestendo e con il piglio adeguato alla sua mitica cartola marinaresca (come da foto) mi informa che “Abbiamo avuto qualche problema al motore… ma ora è tutto a posto”. Sorvola gentile sulle probabili raffiche di sincopi e bestemmie di poco prima in pozzetto. Il cavo dell’acceleratore si è tranciato per sopraggiunti limiti di età qualche spanna prima del motore. Ora Fabrizio controlla i giri dall’altro capo, infilando la testa nel gavone di poppa e armeggiando sul cavo con una pinza. Allegria!
A mezzanotte in pozzetto siamo solo Filippo ed io (in traversata facciamo spesso coppia fissa). Fabrizio si prende ancora una mezzoretta di sonno, in cui sognerà cose bizzarre. Antonio, che lotta tra la voglia di star sveglio in pozzetto e il fastidio da freddo-pioggia-mare, ad intervalli costanti si alza, si affaccia e scambia qualche parola con noi. Giuliano è andato a crollare in cuccia sotto il lussuoso piumone (preriscaldato) dopo che alcune ore di onda lunga gli hanno ricordato per benino com’è fatto il mal di mare. Io regolo un po’ le vele e timono con gioia (dopo 20 minuti, ritrovo tutti i miei riferimenti, stavolta però sotto un cielo muto) e cerco di limitare i troppo frequenti scarrellamenti della randa (il vento viene proprio al giardinetto).
Non so se l’avevo detto, ma piove. No, non è la Tempesta Perfetta. Ma piove. Piove con regolarità da ore. E c’è borin. E, porcalaputtana, ho dimenticato la giacca a vento uscendo di casa, come un quindicenne in fregola (o come un velista quarantenne). Sotto sono ben vestito (ho 4 strati di pile vari), e sopra comunque l’acqua non passa, perché lo spray top che avevo portato per Antonio per quanto leggerino è davvero stagno (una vera figata!). Solo che lo spray, bravo lui e stronzo io, non ha il cappuccio, quindi per ripararmi testa faccia collo e orecchie mi devo ingegnare con tutti i miei copricollo, il berretto di lana e sopra quello il cappello estivo a tese larghe (non impermeabile, ça va sans dire). I miei soliti guanti “invernali” sono bucati e zuppi sui palmi. Anche quelli “fighi” di Giuliano (quindi grandi il doppio delle mie affascinanti manine) con cui li ho sostituiti diventano due enormi spugne bagnate dopo pochi minuti. Sarà una lunga notte, perché sarà una notte fredda. Cioè, sarà una notte in cui soffrirò il freddo per non essermi vestito adeguatamente.
Dopo qualche ora di disagio da intirizzimento e da crampi da vomito (a proposito, è da almeno 5 ore che non ho più spasmi!), decido che non ha senso perseverare: scendo e sostituisco lo spray top con l’incerata semi-oceanica di Giuliano, tanto a lui non serve. Tutta un’altra cosa, dice il mio collo. Tuttavia domattina, sia io che Fabrizio (che come sempre pare coperto a puntino) scopriremo di essere bagnati fin nelle mutande.
Ma io non ho voglia. Non voglio lamentarmi per il raggelarsi continuo, per l’umido addosso, per la pioggia costante che ci batte addosso, per le mani imbibite d’acqua. Perché mai dovrei lamentarmi ora? Sono su Shasa, con i miei amici (c’è anche Antonio!), con una meta davanti alla prua e un trionfo alle spalle là in fondo alla scia. Sto facendo una delle poche cose che mi entusiasmano irrefrenabilmente nella vita, ma perché mai dovrei lamentarmi?
E anche se siamo al freddo, sotto l’acqua, senza un orizzonte davanti penso anche che no, stavolta non è un giorno come un altro a bordo di Shasa perché, cazzo, stavolta stiamo riportando a casa un successo atteso da tanto tempo, la nostra personale Coppa d’Autunno, bella, preziosissima e meritatissima. Nessun blasone da classifica, nessun trofeo: il nostro premio è la prima Barcolana finita per intero, con una bella posizione in classifica, e soprattutto in un fine settimana in tutto e per tutto semplicemente perfetto. Siamo letteralmente felici come bambini (che ci vuoi fare, ci basta poco, siamo fatti così!), siamo puro entusiasmo, siamo pura naiveté fatta cristoni di 80 e più chili. Come sempre, e forse stavolta più del solito, in questo preciso momento, nessuno di noi vorrebbe essere altrove.
Prima dell’alba siamo davanti a Marina di Ravenna. Anche stavolta dobbiamo districarci tra luci di terra ridondanti, ma ci basta prima schivare e poi affiancare un traghetto immenso che troviamo al volo l’ingresso delle dighe. Ammainiamo la randa all’ultimo ed entriamo come ladri in un CVR silenzioso e deserto da lunedì mattina, dove ormeggiamo tutti insieme, di nuovo felicemente riuniti.
Si fanno i bagagli, ma con tanto carico di soddisfazione dentro di noi finisce che molti dimenticano qualcosa a bordo. È la voglia di non partire, di non staccare i piedi da Shasa. Andando mesti e stanchi verso il nostro bus+treno, Antonio ed io constatiamo che un altro regalo ci è stato fatto: inspiegabilmente, stavolta, niente mal di terra.
Un altro segnale, un altro canto delle sirene ci richiama in mare.