Dall’andare per mare, dal portare bene una barca a vela, o dal successo in regata ricevi emozioni talmente grandi che non puoi rinchiuderle nelle piccole cose, in quegli oggetti minimi, dettagli, che non determinano certo il tuo vivere al massimo la tua vita a bordo, ma ai quali non puoi fare a meno di affezionarti. Proviamo a mettere insieme un po’ di diapositive di questi maledetti dettagli, forse (speriamo) scarsamente significanti, ma che come tutto a bordo racchiudono anch’essi l’anima e la voce di Shasa.
Il gelcoat attorno all’imboccatura del serbatoio
Sta finendo il gasolio, ed è ora di fare il pieno. Aperto il tappo esterno con la pinza rossa e finito di versare il carburante (dal benzinaio o dalla tanica), immancabilmente realizzi che, nonostante ogni meticolosa precauzione presa, sul gelcoat è finita qualche goccia di gasolio.
La coperta richiede una gentile pulizia, e ti industri per sgrassare quel palmo quadrato di unto che vorrebbe, vorrebbe tanto allargarsi a macchia di sé stesso. Sgrassatore biodegradabile, olio di gomito, abbondanti sciacqui e colpi d’occhio. Quando hai finito di asciugare con la carta multiuso, passi la mano nuda sul gelcoat per un’ultima, tranquillizzante carezza. Ancora una volta, quello che senti è che proprio lì, in quel palmo quadrato di coperta attorno all’imboccatura del serbatoio, stai toccando la bianca pelle di Shasa come in nessun altro posto la sentiresti. Liscia, zigrinata antiscivolo, non più giovanissima quanto basta da sentirne le storie, ma ancora perfetta, solida, viva e rassicurante.
I filetti del genoa
Mentre vai a vela e reggi la barra del timone, i filetti del genoa sono lì, davanti a te e costituiscono quasi la metà di quello che guardi. Sai bene come sono fatti, puoi dire di conoscerli a memoria: leggeri fili di lana, una decina di centimetri ciascuno, rossi a sinistra, verdi a destra, in basso al centro e in alto, a una spanna dall’inferitura del genoa, si attaccano alla vela con un cerchio di materiale velico di pochi centimetri di diametro. Li conosci per tutte le volte che hai dovuto andare a prua per dare delle pacche al genoa per farli sgarugliare, e li hai odiati quando, mancando il sole, non riuscivi a vedere il movimento di quelli sottovento (“La vela sarà a segno?”). Sono il tuo unico riferimento per sapere qualcosa della tua vela mentre stai navigando, non c’è nient’altro che ti parla del genoa, hai gli occhi incollati sui filetti perché i filetti sono la voce del genoa.
Eppure, per un motivo o per l’altro, realizzi che non sei mai riuscito a toccarli. Per accarezzarli con rispetto e dirgli una volta grazie.
I carrelli della randa
Issiamo la randa. Tu sei all’albero, devi inferire i carrelli che tengono la randa infissa nell’albero e oltre tutto fai anche il drizzista, con un aiuto dal pozzetto a recuperare la drizza, finché riesci a issare tu dall’albero. Devi essere coordinato, veloce e preciso perché altrimenti si blocca tutto, e l’uomo in pozzetto è sempre lento a calare. Dovrebbe andare tutto liscio come l’olio, ma non c’è mai stata un’issata che sia andata bene dal primo all’ultimo maledetto carrello. Uno degli ultimi carrelli da infilare – maledetto lui! – è pure mezzo rotto e si incastra regolarmente appena riesci a imboccare la feritoia. Lo aspetti con trepidazione, quella specie di Tafazzi in plastica e rotelline che, ne sei certo, anche stavolta ti sbottiglierà i coglioni mentre tutto il resto dell’equipaggio è lì ad aspettare te, semincastrato eppure precario nella tua posizione inaspettatamente scomoda.
I carrelli non sono facili da prendere e infilare, sotto il peso di quasi tutta la randa, usando una mano sola (l’altra è alla drizza), una sola mano ancora fredda, e diverse volte qualche pezzo di pelle ti è rimasto tra un carrello e l’albero o tra un carrello e la randa, perché comunque, ogni maledetta volta, non sai mai bene da che parte prenderli.
Così, tanto per dare la colpa ai carrelli.
Il tubo della pompa di sentina
Scendi nella penombra di sottocoperta che già ti senti come se sprofondassi nelle stive del Bounty. Alzi i paglioli e scopri il piano più basso di tutta la barca. Poi ti chini, come se potessi scendere ancora, e prendi in mano il tubo che, collegato alla pompa di sentina, aspira l’acqua che si è accumulata sul fondo della barca. All’estremità del tubo c’è uno strano terminale in ottone. Ha un lato piatto, fatto per poter stare a contatto con il fondo e aspirare anche un minimo velo d’acqua. Accendi “Pompa sentina” sul quadro. Maneggiare il terminale non è facile, attaccato com’è ad un tubo abbastanza spesso e scarsamente flessibile, ma il suo compito lo ha sempre fatto senza battere ciglio.
Ogni volta che lo rimetti a dormire dopo l’uso, pensi che è certamente il più sfigato dei membri del silenzioso equipaggio fisso di Shasa: se ne sta lì, costantemente al buio e immerso in liquami anche immondi, ma appena vede la luce è solo per ingurgitarseli con proverbiale efficienza e poi tornare al buio della sentina, dimenticato per giorni se non settimane o mesi.
La porta di casa
Appena torni a bordo di Shasa, uno dei primi contatti fisici prolungati ce l’hai con la porta di casa, un’asse di legno che chiude il tambuccio. C’è una piccola serratura. E subito, ogni volta, resti ammirato per una cosa sorprendente: la dimensione della chiave che sta per dischiuderti l’immenso mondo di Shasa. È una chiavetta piccola piccola (come quella della cassetta della posta), che si infila nella microscopica serratura come fosse nel burro e come nel burro sembra girare.
Poi senti lo scrocco, fai scorrere un po’ il tambuccio, quanto basta per sollevare la porta di casa e disincastrarla. Il legno di cui è fatta sul lato esterno è bruciato dal sole, sembra un reperto archeologico mentre dentro è ancora quasi perfetta, lucida e gentilmente verniciata, dello stesso colore degli interni e leggermente ingiallita sui bordi. La tieni in mano, per riporla fino alla prossima volta in cui richiuderai il vaso di Pandora della tua gioia nautica, e intanto ti senti restituire tutto il calore che ha assorbito nel corso dei mesi attraverso le grigie e consunte venature della superficie esterna. Un primo contatto meta-fisico.
Le cimette del lazy jack
La braga in cui, in configurazione da diporto, si richiude la randa sul boma (la lazy bag), viene tenuta aperta da tre cimette per lato che, fissate alla braga in appositi occhielli di fettuccia e poi opportunamente rinviate tra loro, salgono verso l’albero (il lazy jack). Sono cimette da pochi millimetri, vecchie di molti anni, ingrigite dal sole e completamente brasate. Sono ruvide e apparentemente abbandonate, ma proprio questa ruvidezza ne costituisce anche il maggior pregio, garantendo un buon attrito dove e quando necessario, soprattutto sui semplici nodi che vi vai a fare.
Per la maggior parte del tempo se ne stanno lì, mezze flosce e pigre nel loro sbatacchiare svogliato. Ma quando si sta per ammainare la randa, basta cazzare una cimetta per lato e il lazy jack magicamente sale, bello teso, pronto a (r)accogliere la randa.
Poi succede che ogni volta che vai al boma per cazzarle o lascarle, ti sorprendi ad ammirare le menti genialoidi che hanno ideato:
- Il modo per evitare di perdere la cimetta grazie ad una stupida, banalissima gassa su se stessa dopo che è stata passata nell’asola della braga.
- Il modo per trattenerle quando sono completamente lascate, rivoltandone un’asola sopra le altre dimette per fissarla ad un semplice gancetto sotto il boma.
Girando un po’ in porto hai visto altri equipaggi lottare con queste pigre cimette, legandole a mazzi all’albero o al boma, smadonnando e sudando per una cosa che tu risolvi, con leggiadria, in 5 secondi per lato. Un piccolo, semplice amore.