[Trieste è la città della Bora e della Barcolana. È anche quela con più anziani d’Italia, ma forse non solo per questo è nota tra i suoi cittadini come la città del “no se pol” (non si può), atteggiamento mentale diffuso che pare determini cronico immobilismo e decisionismo alla rovescia]
In regata, capita che un’imbarcazione (la chiamiamo Zulu) inizi una manovra vietata ai sensi del regolamento, in quanto determinerebbe un danno ad un’altra barca vicina (è Alfa). In questi casi, l’equipaggio di Alfa ha la possibilità di richiamare l’attenzione di Zulu prima che sia troppo tardi (collisione), e il segnale universale è “chiamare acqua o spazio”, ovvero rivendicare abbastanza spazio di manovra (acqua, appunto) per poter proseguire secondo il “diritto di rotta” previsto dal regolamento di regata e dalle regole di precedenza che si applicano (universalmente) in mare per evitare le collisioni. Quindi succede che da Alfa si levino sonore, letteralmente, urla (spesso concitate e un po’ scocciate) alla volta di Zulu: “Acquaaaa!” oppure “Ehi, voi, datemi acquaaa!”, “Guarda che vengo da destra, dammi acqua, eh!”. Va anche detto che in molti casi, poi, la cosa si risolve da sé. Tra gentlemen, basta spesso un qualche cenno e non serve alzare la voce.
Ma diverse volte in regata, in quei momenti tesi di partenze o passaggi in boa affollati di barche sbatacchianti e potenzialmente destinate alla collisione, ci è capitato di sentire un “chiamare spazio” non proprio ortodosso, molto prepotente e che ha l’effetto di gelare tutti, ma proprio tutti sulle barche intorno, quando la barca Alfa grida:
– “Non puoi! Non puoi! Ooohh, non puoooiiiii!!!”
Non puoi. Punto. Non ti do una via d’uscita. Non ti dico cosa puoi/dovresti fare per riuscire a salvarci entrambi. No. Non puoi. Punto.
La reazione inconscia in chi porta la barca Zulu, a questo punto (anche senza sottotesti) è, inevitabilmente, l’immobilismo. Anziché pensare a manovrare per spostarsi e dare acqua a Alfa, se non ha nervi saldi, Zulu si blocca. E senza più pensare a quel che stava a fare, Non puoi, Bum, Binario morto!
Finora, abbiamo verificato sperimentalmente che chi grida “non puoi” lo fa proprio apposta, perché con prepotenza, e cattiveria, rivendica la propria superiorità assoluta (non solo rispetto al regolamento).
Checazzomenefrega a me, tu non puoi. Muori. Subito. Adesso. Anzi, disintegrati lì, prima che io mi faccia male. Non puoi. Sparisci! Punto.
L’ultimo “Non puoi!” l’abbiamo sentito alla Barcolana46, mentre un barchino-Zulu di 6 metri guardava la locomotiva-Alfa di un 15m attrezzatissimo che insisteva nei suoi “Non puoi!” andandogli serenamente incontro (Ho ragione io, perchè dovrei cambiare rotta per evitare l’impatto…). Lo skipper-Alfa lo grida, sempre, inconsapevole delle conseguenze, il suo Non puoi. E ovviamente, subito dopo, finiscono tutti immobili, lo sguardo perso, a pensare all’inutile…
Personalmente quel non puoi mi ha ricordato il “Fermo!” del forestale marchigiano al caparbio chirocefalo del lago di Pilato, urlato ai sensi del metodo di repressione altrimenti chiamato “tutela” [Offlaga Disco Pax, Fermo! – Bachelite, 2008]
In sintesi, non puoi chiamare “non puoi” in regata. Che la diarrea ti colga all’improvviso mentre ricevi il tuo ambito trofeo davanti a schiere di fotografi e hostess gnocche. Io vorrei solo che ti si disintegrasse la barca sotto i piedi ogni volta che lo gridi, il tuo non puoi.